In occasione della mostra OMBRE PRIME, che celebra Vasco Bendini nella ricorrenza dei 100 anni dalla nascita, abbiamo chiesto a Renato Barilli di parlarci dell’artista, con il quale ha intrecciato un rapporto di collaborazione e amicizia duraturo nel tempo, curando diverse sue mostre e seguendone il percorso fino agli ultimi sviluppi.
Perché è importante la pittura di Vasco Bendini?
Bendini è emerso negli anni Cinquanta in cui Bologna ha conosciuto la sua stagione forse più importante nel secondo dopoguerra, all’ombra del critico di riferimento, Francesco Arcangeli, che nel ’54 aveva scritto un saggio molto importante ma anche molto controverso sulla rivista del suo Maestro, Roberto Longhi, “Paragone”. Nel titolo quello scritto evocava un fantasma quanto mai scomodo, suonava infatti Ultimo naturalismo. Questo termine era come ben si sa una categoria fondamentale nella visione longhiana, dal Caravaggio in poi, e dunque ogni suo allievo, come Momi, o come Giovanni Testori a Milano, non poteva mancare di sacrificargli, ma nello stesso tempo si trattava di una etichetta molto invisa a quei tempi dalla critica che si riteneva più avanzata, diciamo da Brandi all’allora giovane Calvesi, che puntavano piuttosto su idoli, più accattivanti di provenienza francese, come il postcubismo, o la formula promossa da Lionello Venturi, dell’astratto-concreto, che era un furbo compromesso tra le ragioni dell’astrazione e quelle di un qualche riferimento, ma cauto e filtrato, a un certo figurativismo. Il frutto bolognese perfetto di queste impostazioni era Sergio Romiti, che veniva visto come l’erede naturale di Giorgio Morandi. Ma Arcangeli mostrava tutta la sua insoddisfazione per soluzioni di questo tipo, che gli sembravano troppo mediate da cautela e prudenza. D’altra parte, conviene notare che il naturalismo da lui chiamato in causa era pur sempre definito “ultimo”, un termine molto ambiguo, perché da un lato indicava come la volontà di chiudersi in un ridotto estremo per condurvi appunto un’ultima resistenza su motivi avanzanti di diverso carattere, ma c’era pure il senso di qualcosa di nuovo, o appunto di “ultimo” che balza in campo. Con quella formula Arcangeli si riferiva in primis alle sue tre “M”, Morlotti, Moreni, Mandelli, cui sarebbe sempre rimasto fedele vita natural durante, ma di rincalzo veniva un quartetto costituito dal nostro Bendini, da Giuseppe Ferrari, Bruno Pulga e Sergio Vacchi. Tra loro, forse il più estraneo a qualsivoglia riferimento naturalista era proprio il nostro Vasco, anche se in quel momento fece pure lui qualche dipinto improntato a quella che scherzosamente si diceva “funzione clorofilliana”, come marchio di fabbrica dell’ultimo naturalismo arcangeliano. Invece il verde vegetale dominava allora, a metà anni Cinquanta, i dipinti degli altri tre. Per caratterizzare ulteriormente il nostro Vasco, diciamo che su di lui agiva un maestro molto presente a Bologna, come docente alla nostra Accademia di Belle Arti, Virgilio Guidi, con quei suoi volti stilizzati, allungati, trattati come fantasmi sfuggenti.
Quale il seguito di queste vicende?
Arcangeli poco dopo si rendeva conto di quanto fuori tempo fosse il fantasma del naturalismo, e pubblicava su “Paragone” un saggio recante un titolo aperto e problematico al massimo, Una situazione non improbabile. Era infatti avvenuto il suo allacciamento con Michel Tapié e il suo Informel, che avanzava con una etichetta quanto mai stimolante, Une artautre. Questa diversità dalle soluzioni correnti improntate a qualche ibridazione tra astrattismo e qualche riferimento a una realtà stilizzata, era il nocciolo centrale delle esigenze avvertite da Arcangeli e da quanti lo seguivano, sia sul fronte pittorico che su quello critico. Tra questi il più avanzato e baldanzoso era Enrico Crispolti, fin da subito in aspra polemica con Argan, Brandi, Calvesi, e c’ero pure io, che avevo già incontrato all’Università l’insegnamento di Luciano Anceschi, aperto a riconoscere i talenti giovanili: infatti mi aveva affidato la rubrica d’arte della appena nata sua rivista “il Verri”, dove recensendo la Biennale di Venezia del ’56 avevo inneggiato a un ritorno di forme “aperte”. Poco dopo, con l’aiuto di Crispolti, sarei riuscito a far dedicare a quella rivista un numero intero proprio all’Informale, che nel frattempo aveva pure conquistato i favori di Argan e di Calvesi. Insomma, diciamo pure che per l’incrociarsi di questi vari fattori Bologna era divenuta una capitale dell’Informale avanzante. Era terminata la stagione d’oro di Romiti, si erano imposti i vari protagonisti dell’Artautre, tra cui il da me amatissimo Jean Dubuffet.
Come si comportò Bendini in quegli anni?
Si valse, come detto, della sua costitutiva indipendenza dal naturalismo, sviluppando invece la derivazione da Guidi, ma trattando i volti guidiani secondo i nuovi canoni dell’insegnamento informale. Era come se trattasse i volti di personaggi estinti applicando sui loro lineamenti le bende con cui si ricavano le maschere mortuarie, procedendo poi a strappi che risultano marcati dalle loro impronte, sparse con totale libertà a maculare qua e là il lenzuolo (la tela) di copertura. Non per niente, per caratterizzare i dipinti di Vasco di quel periodo si è ricorso alla nomenclatura che si adatta ai resti delle immagini sacre, si è parlato di veroniche, di sudari. Di sindoni. Magari rimanevano leggibili alcune tracce di un volto decomposto, una canna nasale, le orbite oculari, ma il tutto richiedeva una certa fantasia interpretativa, una volonterosa capacità di leggere una serie di tracce effimere, quasi sul punto di sparire, di volatilizzarsi. Io stesso, che allora frequentavo Vasco assiduamente, ho ricevuto in dono da lui due di queste veroniche, dotate ancora di qualche grado di leggibilità.
Quali i passi successivi dell’artista?
A metà dei Sessanta egli si è stancato di questi procedimenti che tendevano a una sorta di auto-annullamento, di corsa verso un grado zero. È stato suscettibile a certi insegnamenti che gli venivano da Maurizio Calvesi, prontamente riavutosi dalla fase anni Cinquanta di ossequio all’astratto-concreto, per entrare invece in sintonia con quanto avveniva sulla scena di New York, dove al loro equivalente dell’Informale, cioè all’espressionismo astratto, si era sostituito il New Dada di Rauschenberg e Johns, non del tutto dimentichi di certe radici informali, ma decisi a farle interagire con materiali presi dalla scena quotidiana, accogliendoli anche nella loro consistenza tridimensionale. Nacque così il periodo ultra-sperimentale legato allo Studio Bentivoglio, un bellissimo palazzo bolognese progettato dal Terribilia sulle tracce del romano, michelangiolesco Palazzo Farnese. In quella sede Bendini esponeva le sue opere avanzate, che non potevano più trovare posto nelle limitate stanze degli appartamenti da lui abitati. Al seguito di quel cambio di passo sono emersi i membri di una situazione nuova, confluita poi nell’Arte povera. Vi hanno fatto i primi passi Pier Paolo Calzolari, genero di Vasco, e Luigi Ontani. Noto a questo proposito che io, dotato della stesa cocciutaggine e fedeltà al proprio passato alla maniera di Arcangeli, ho definito quella fase riproponendo il termine di Informale, ma applicandogli due connotati in cui stava tutta la differenza rispetto al suo precedente storico, definendolo “freddo”, privo cioè dell’impeto romantico che aveva caratterizzato la fase precedente, e anche “tecnologico”, come risultava proprio dal lavoro di Calzolari, pronto a valersi di tubi al neon, pur facendoli dialogare con muschi e altri dati vegetali.
Si conclude qui il percorso di Bendini?
No, perché sul finire dei Sessanta si deve essere accorto di quanto quelle soluzioni clamorose, invasive, temerarie fossero contrarie al suo stile di fondo, ed è tornato alla pittura di sempre, forse dilatandola, coprendo con essa estensioni maggiori di tela. Nello stesso tempo ha deciso di abbandonare Bologna a favore di Roma, accogliendo anche la suggestione di un gallerista e collezionista di grande valore quale Bruno Sargentini, conduttore dell’Attico, sito in Piazza di Spagna. Ma se da Sargentini Vasco ha avuto una tranquillità economica, avendo trovato chi regolarmente gli acquistava le opere, in seguito ha trovato un appoggio presso Ennio Borzi, già socio di Sargentini, scomparso però prematuramente nel 1989. Rimasto senza una galleria di riferimento, si trasferisce per tredici anni a Parma, ritornando poi a Roma ormai novantenne estendendo, intensificando tutti i migliori caratteri della sua produzione anteriore.